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Il bifolco
Ogni famiglia contadina era un microcosmo nel quale ogni persona,
e di persone ce n'erano tante, aveva il suo ruolo ed i suoi
compiti specifici che variavano in base all'età, quindi
all'esperienza ed alla capacità di ciascuno.
Insomma, come in una azienda si cerca la migliore organizzazione
e si attribuisce a ciascuno compiti appropriati affinché
possa dare il meglio di se stesso, così nelle grandi
famiglie contadine senza dover ricorrere alle società
di consulenza d'organizzazione, a ciascuno, con la massima
naturalità, era attribuito il suo compito.
Il lavoro del quale ora cercherò di raccontarvi è
quello del "bifolco".
Oggi questo termine viene usato come epiteto che si attribuisce
a qualcuno per definirlo grezzo, persona dai modi e dagli
atteggiamenti rudi, ma secondo me si fa di questa parola un
uso improprio.
Allora vi chiederete chi è il "bifolco".
Il vocabolario Zingarelli, a questo vocabolo attribuisce il
seguente significato; "Chi ara la terra - uomo grossolano,
grezzo".
Sì, il "bifolco" era la persona che arava
la terra con le bestie da lavoro, (i buoi o le vacche), ma
non arava la terra e basta, si occupava del bestiame da lavoro,
lo accudiva e lo impiegava per tutti i lavori di aratura,
di trasporto, di semina, insomma era il moderno trattorista.
Fino ai primi anni sessanta i trattori non erano molto diffusi
ed in campagna i contadini facevano quasi tutto con le bestie.
Il "bifolco" era un personaggio in grado di stabilire
con le bestie da lavoro un rapporto particolare, riusciva
a fargli fare tutto quello che riteneva opportuno, era insomma
un bravo domatore in quanto le abituava ad eseguire i suoi
comandi, le bestie percepivano la sua presenza e bastava un
suo cenno per tornare a posto.
Vi domanderete quali erano questi lavori, quali erano gli
attrezzi e penso sarete curiosi di conoscere qualcuno di questi
personaggi che vivono ancora nei miei ricordi.
Vi racconterò dell'aratura a "trapelo" fatta
cioè con due paia di bestie, buoi o vacche, dallo zio
Pompeo che qualche volta andavo ad aiutare.
L'aratura si faceva d'estate in agosto, quando il raccolto
era ormai sistemato. Le ore del giorno dedicate a questo lavoro
particolarmente faticoso per le bestie erano quelle ancora
fresche del mattino.
Si partiva al levare del sole, si "attaccavano le bestie"
preparandole con il giogo ed i paiali; la preparazione della
bestie con i finimenti era un vero rito, ancora nella stalla
si applicava il morso al quale era attaccato il paiale che
veniva incrociato nelle corna dell'animale. Il paiale era
una fune robusta e sottile alla estremità della quale
era legato il morso "la morsala" che doveva essere
inserita nel naso incrociando la fune nelle corna a formare
una specie di tirante.
Veniva poi messo il giogo al centro del quale si trovava il
"roccio", un anello di legno che avrebbe poi permesso
di collegare la "bura", il legno che costituiva
il tiro, l'elemento che consentiva di collegare il giogo con
l'attrezzo da tirare.
Le bestie non potevano essere utilizzate a caso , ciascuna
aveva la sua mano, c'era quindi la "mandritta",
la destra, che nel tiro stava sempre a destra e la "mancina",
la sinistra, che era abituata a tenere sempre la posizione
di sinistra.
Compiuti i necessari preparativi ci si avviava verso il campo
da arare attaccando le bestie all'aratro.
Raggiunto il campo si iniziava il lavoro, le due paia di vacche
si disponevano una di seguito all'altra, quella dietro attaccata
all'aratro con la "bura" fissa, quella davanti con
una lunga catena; e così si cominciava l'aratura andando
da una estremità all'altra del campo, si cominciava
dal centro se il campo doveva essere "colmato" o
dai lati se si voleva creare al centro un solco "spaccato".
Ogni volta che si arrivava al termine del campo si staccava
e si predisponeva per tornare nella direzione opposta.
Le bestie non avevano mai lo stesso carico, quella che si
trovava a camminare nel solco, la destra, quindi in posizione
più bassa doveva sopportare un carico ben maggiore.
Ed ecco che qui interviene la bravura e la genialità
dello zio Pompeo, un uomo che con le sue bestie ci sapeva
veramente fare, praticamente ci parlava, riconoscevano la
sua voce.
Come dicevo prima ciascun animale impara a stare in un verso
diventando quindi "mancina" o "mandritta",
mio zio Pompeo era riuscito a far superare l'abitudine riuscendo
ad invertire le bestie facendogli assumere ora la posizione
"mancina" ora la posizione "mandritta";
le sue bestie , quando aravano, dividevano la fatica in modo
equo perché erano capaci di stare sia nel solco che
nel campo.
In campagna per dire a qualcuno di stare alle regole si dice
"stai al solco".
Quando il sole cominciava a farsi sentire era l'ora di staccare
l'aratro, tornare a casa, rimettere le bestie nella stalla
e godersi quindi le tagliatelle della nonna Ada alzatasi all'alba
anche lei per preparaci il pranzo.
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